venerdì 20 dicembre 2013

False promesse, radici e illusioni di ricchezza

18 Novembre 2013 : una data che quasi sicuramente passerà alla storia, perché un disastro del genere merita attenzione, merita giustizia.
Tanto dolore e disperazione, in queste settimane, vivono nei corpi degli abitanti sardi e non solo, dato che tutta l'Italia si è movimentata sin da subito per aiutare gli alluvionati di una terra tanto soleggiata com'è la Sardegna. Si vorrebbe poter dire che è stato solamente un ciclone improvviso, un disastro che era impossibile da prevedere; ma tutti sappiamo che non è così, perché una tale affermazione, come dice Samuele Canu nella sua lettera a "La Nuova Sardegna", "sarebbe un'auto-assoluzione il cui lusso non ci è concesso.". Tutti abbiamo le mani insanguinate, tutti siamo responsabili di questa tragedia, poiché la bramosia, l'ingordigia e la stupidità hanno avuto la meglio sulle nostre coscienze.
La colpa è di tutti noi, perché abbiamo scelto degli "dei" in giacca e cravatta da scomodare dalle loro poltrone, per onorarci della loro finta presenza, in cambio di una promessa non mantenuta di una opportunità maggiore di lavoro, per una vota dignitosa.
Abbiamo rifiutato, ceduto la nostra libertà inutilmente, perché avere a disposizione delle opportunità lavorative è una cosa che, essendo l'Italia uno Stato democratico, ci spetta di diritto.
Avendo basato la nostra scelta su promesse inutili, non abbiamo tenuto conto di tutti i piani paesaggistici promossi dai nostri organi "competenti", perché competenti lo sono davvero poco; tantomeno abbiamo riportato alla mente i famosi anni '70, gli anni in cui i sardi, a detta degli italiani, conducevano una vita dura, da poveri, e perciò era necessaria una modernizzazione.
Non so cosa sia andato storto, in quel periodo, ma so che da quel momento tutto è cambiato con violenza e velocità: si è iniziato a svendere la terra, costruendo ovunque, a partire dalle zone costiere, e le case venivano edificate "durante la notte", così si dice, perché la sera prima il terreno era libero, e allo spuntare del Sole, con esso spuntavano anche le villette e i palazzi; si è rimasti in silenzio anche quando qualcuno "più moderno di noi" ha osato cambiare i nomi a località turistiche: solo dopo ci si è resi conto di aver avuto per tantissimo tempo un tesoro di valore inestimabile sotto gli occhi, e di averne fatto una vergogna, perché gli altri predicavano modernità gettando cemento in ogni centimetro quadro di terreno agricolo, e noi abbiamo seguito come pecore, perché questi sono i termini di paragone che si avevano al tempo, dato che eravamo pastori.
Nei primi anni '80 ci fu un'ondata di giustizia che portò in carcere molti tecnici e amministratori comunali; ma quest'ondata finì presto e la "Regione varò la legge che fece fregare le mani a quanti, in buona fede o per costante speculazione edilizia, avevano realizzato immobili [...] in zona agricola." (Giampiero Cocco, La Nuova Sardegna).
In questi anni in cui si promuove tanto la modernità e il progresso, ci sono ancora strade tangenziali il cui cavalcavia passa a pochi centimetri dalle abitazioni (costruite abusivamente in quei lotti); molti quartieri si ritrovano senza marciapiedi, asfalto, numeri civici e illuminazione pubblica; i canali, bonificati recentemente, mancano delle protezioni e recinzioni necessarie a seguire i rigidi criteri di legge, che la maggior parte delle amministrazioni comunali ignora a seconda della maggioranza in ambiente politico, e a seconda della simpatia nutrita verso gli imprenditori.
Probabilmente dovuto all'inesperienza, siamo arrivati ad emulare le società già modernizzate, senza tenere conto delle nostre radici, dei nostri paesi, della nostra lingua, delle diversità che si presentavano in ogni provincia Sarda, e che ci rendevano, appunto, tutti diversi.
Abbiamo preso come esempio società che in passato hanno modellato il nuovo sulle proprie radici e non si sono limitate a modellare il nuovo; sono stati attenti a non svegliarsi la mattina dopo in un mondo ormai sconosciuto.
Noi invece abbiamo fallito, poiché abbiamo adottato una modernità che non ci apparteneva ancora, dimenticandoci da dove venivamo, negando le nostre origini. Tutto ciò che rimane delle nostre radici è una caricatura grottesca, talvolta ingigantita e ridicolizzata. Si fa finta di esser fieri della patria a cui si appartiene, esibendo i costumi e i cibi tradizionali quando i turisti sbarcano nelle nostre città, ma la realtà è che vorremmo essere nei loro panni, che arrivano da noi, e in poche ore consumano i luoghi e portano via un ricordo sbiadito dell'isola.
Siamo tutt'altro che ricchi, perché ciò che abbiamo è solo una illusione di ricchezza. Coloro che abusivamente abitano nelle coste o in zone non edificabili gravano economicamente sulla società e sull'incolumità degli abitanti. Prima avevamo città e paesi con una linea di confine netta, perché subito fuori dalla città si trovava la campagna; ora ciò che abbiamo sono abitazioni sparse che rovinano le campagne ed il paesaggio e creano disastri e disagi alla popolazione.
E i disastri si creano perché i romantici avevano ragione, la natura è buona e cara, fin quando l'uomo non osa rovinare il suo equilibrio, la sua perfezione, e allora essa si ribella, per trovarlo di nuovo, questo equilibrio, e lo fa con ogni mezzo possibile: alluvioni, terremoti, cicloni e tutti gli altri disastri naturali.
Per questo l'uomo non dovrebbe stupirsi di queste tragedie, anzi... dovrebbe prevederle, perché è solo colpa sua, perché se l'è andata a cercare.
"La vita è come una goccia che inesorabilmente scorre su una foglia." dice Samuele Canu (La Nuova Sardegna).
"La vita è una casa che sta precaria sul letto di un fiume prosciugato, che alla prima pioggia annega e vien distrutta, perché il suo posto non era quel letto, e il fiume si è solo ripreso ciò che gli apparteneva." aggiungo io.

Turunen.

Nessun commento:

Posta un commento